2020 – Omelia in occasione della festa di S. Tommaso d’Aquino, patrono degli studenti di Teologia

Il significato della celebrazione odierna ci spinge ad operare una riflessione, ci sollecita a formulare un auspicio, ci muove alla preghiera di lode, d’impetrazione, di ringraziamento.

La riflessione.
Essa trova origine in più elementi commistionati tra loro.
Il primo elemento proviene dal fatto che una scuola di teologia fa memoria, nella festa liturgica di S. Tommaso, di uno dei più grandi maestri del pensiero cristiano che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto. Ci stimola a proporre la ricchezza e la bellezza del messaggio evangelico al mondo, sempre più afflitto dalla povertà di pensieri negativi, e sempre più abbruttito da logiche distruttive e spersonalizzanti.
Il secondo elemento nasce dalla considerazione che celebriamo non una dottrina, seppure sacra, ma un Santo della Chiesa, che nell’intelligenza della fede ha trovato quella forma sanctitatis che tutti noi cristiani siamo chiamati a cercare e percorrere lungo il cammino ordinario della vita cristiana. Ci muove ad una santa imitazione perché la fede, e le persone di fede abbiano il coraggio di trovare sempre più motivate e condivise ragioni del loro credere, sperare, amare, operare.
Il terzo elemento scaturisce dal senso e dalla bellezza semplice di uno scritto del Teologo che è stato proposto come oggetto della nostra preghiera. Non un brano della Summa, non un brano tratto da opere apologetiche, sistematiche, morali o esegetiche dell’Aquinate, ma un brano preso da un ciclo di predicazione e catechesi che Tommaso ha svolto lungo la Quaresima del 1273 nella Chiesa di S. Lorenzo Maggiore a Napoli, dove il Santo teologo ha parlato al popolo di Dio in dialetto napoletano, spiegando come dice lui stesso per bocca dei suoi “Reportatores”: quia tria res sunt homini necessaria ad salutem, scilicet scientia credendorum, scilicet scientia desiderandorum, et scientia operandorum. Primum docetur in Symbolo, ubi traditur scientia de articulis fidei; secundum in Oratione Dominica; tertium autem in Lege.
Si tratta del catechismo!
È da Tommaso che possiamo imparare in maniera mirabile quel connubio che associa e mai disgiunge le esigenze rigorose proprie della scienza teologica con il desiderio appassionato di trasmettere al mondo la profondità del Vangelo e della vita cristiana.
La scienza da sola e per sé stessa diviene scientismo arido, votato all’inutilità dell’esercizio del pensiero e alla sterilità germinativa dello spirito.
La passione da sola e per sé stessa si riduce ad un becero devozionalismo insufficiente al vero progresso della fede, e per ciò stesso incapace di restituire all’uomo le primigenie caratteristiche creaturali: la bellezza, la bontà, la purezza; vale a dire la santità, quella qualità specifica che appartiene solo a Jahve, il nome Kadosh, e per ciò stesso inafferrabile, incontenibile, ineffabile. Anche i nostri studi devono essere improntati secondo questa duplice tensione, per essere già oggi, ed in special modo domani, nei vari campi di ministero, santi, dottori e pastori, così come la stessa sapienza liturgica ci spinge sempre a considerare e celebrare.

Il quarto elemento della nostra riflessione trae origine dallo stesso contenuto teologico e catechistico che Tommaso propone e spiega al popolo assiepato: l’amore al prossimo. Amore che è ontologicamente divino, moralmente categorico, connaturalmente umano, teleologicamente impiegato per il bene comune dell’intera umanità.
Un amore simile non può che interpellare l’uomo “costringendolo” ad essere responsabile, cioè capace di risposte autentiche, interpretative ed esistenziali alle domande di Dio, degli uomini, dell’intero creato, della coscienza di ciascuno. Questo, allora, può significare immergerci nel campo della responsabilità, con la speranza che ogni tentativo di risposta, personale, ecclesiale, sociale, sia sempre un moto che nasce dall’amore, che nasce da Dio, perché Dio è amore.
Il Vangelo, chiave di lettura di tutto, lievito della nostra vita, sale della nostra persona, luce del nostro destino, ha un indicativo da mostrarci: l’amore reciproco. Esso nella sua perfetta logica “sintattica”, esprime una norma di realizzazione: come io vi ho amati; implica una condizione: se farete ciò che vi dico; comporta un imperativo che realizza la nostra più profonda e rinnovata identità: essere amici del Signore Gesù.
Anche l’amicizia implica l’intervento della responsabilità, individuale e collettiva, specie se si tratta dell’amicizia con Dio, sorgente dell’amicizia degli uomini. Questa amicizia fa nascere un mandato: andate e portate frutto duraturo. Allora, elemento ulteriore della nostra riflessione diviene il compito che ci attende: portare frutto, nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità parrocchiali, nell’Istituto, nella Diocesi, nella Chiesa intera, nella città degli uomini: il Paese, la Regione, la Nazione, il Mondo.
Questo frutto si chiama: risposta d’amore all’amore teologale capace di trasformare gli uomini in amici.
Per questo, e solo con queste motivazioni, vale la pena sacrificare tempo, fatica, soldi, disponibilità.
La quantità e la qualità di questo sacrificio è la misura della nostra responsabilità!

L’auspicio.
Che il nostro percorso di studio, di crescita umana e teologica sia segnato
esclusivamente dal desiderio di diventare responsabili amici di Dio e degli uomini. Non permettiamo al Maligno di prevalere, facendo forza sullo scoramento umano e sulla cupidigia, con le sue logiche ed i suoi sogni di piccolo cabotaggio. Essi portano a fare del pensiero e dello studio un voto sul libretto, dell’amore un prurito estetico, della fede una corazza di latta, dell’amicizia una necessità autoerotica.

La preghiera
Ti lodiamo Signore perché sei buono, ci hai creati e redenti nell’immensità
gratuita del Tuo Amore, che è pensiero ed insieme azione, che è la natura più intima di te stesso, che chiamiamo Dio Spirito.
Ti chiediamo d’essere prisma evangelico della tua bontà, oggi e sempre, qui e ovunque, tra noi e con tutti.
Ti rendiamo grazie perché hai messo in noi un appetito insaziabile di conoscenza pari all’abisso irraggiungibile del tuo mistero, che mai nessuno potrà possedere ma che a tutti concedi la grazia di intuire.
E così sia.